Cesare Pavese
La luna e i falò

All’indomani della liberazione, dopo esser stato vent’anni in America, Anguilla torna nel paese dove è cresciuto, sulle Langhe, per avere finalmente un posto che possa chiamare casa. Nel paese tutto è rimasto uguale: le feste, il senso di amicizia, ma anche la miseria, lo sfruttamento, il fatalismo, la superstizione, la violenza. La storia qui è passata ma non ha mutato niente: la Resistenza non si è fatta rinnovamento sociale e i reazionari sono tornati a spadroneggiare. Anguilla ritrova i propri «miti», ossia le esperienze infantili e adolescenziali che porta inscritte dentro di sé e che costituiscono la sua identità; ma lui, che è un trovatello, è senza casa per nascita, e dopo aver girato il mondo, ormai non appartiene più a quel paese. Né crede che si possa cambiarlo, perché sa che il mondo è sempre uguale a sé stesso, immutabile, condizionato da quello che Pavese chiamava «destino»: un sostrato «perenne», «fuori dal tempo». Per Anguilla non c’è scelta: bisogna andarsene. Invece l’amico Nuto, che non è mai uscito dalle Langhe, è convinto che le cose si possano cambiare e che bisogna restare. Pubblicato nell’aprile del 1950, questo romanzo è caratterizzato da una prosa scarna, stilizzata, tale «che non vi sia nulla di superfluo», ma resa vivace dalle risonanze del parlato piemontese; una prosa sempre misurata, controllata da un’«ascesi» distaccata, ma inframmezzata da squarci lirici dalle sonorità e cadenze litaniche, che sono quasi dei versi nascosti. Perfetto esempio di romanzo neorealista, con la sua sintesi di realismo documentario e di simbolismo ispirato dalla lettura di Ernesto de Martino e di Jung, La luna e i falò è davvero ciò che per Pavese doveva essere un’opera d’arte: un «cristallo» ottenuto a prezzo di un lungo «maceramento», un lungo «calvario».

Note di Alberto Ardito