Mastro-don Gesualdo, la cui versione definitiva, qui proposta, uscì nel 1889, è un romanzo che appartiene all’incompiuto ciclo dei Vinti, con il quale Verga intendeva raccontare le vite travolte dalla «fiumana» del progresso. La vicenda, che si svolge in un borgo della provincia siciliana, mentre il regno borbonico è ormai al tramonto, in una società che si sta lasciando alle spalle il feudalesimo e in cui comincia a penetrare il capitalismo, ruota intorno alla sconfitta finanziaria e affettiva di un ricco borghese, Gesualdo Motta, il quale dalla sua ricchezza non ricava nient’altro che infelicità. Vi si alternano episodi tragici, che tuttavia restano lontani da qualsiasi sentimentalismo, ed episodi umoristici, dove ad agire sulla scena sono macchiette, personaggi caricaturali, talora ritratti in chiave grottesca. Ne risulta un affresco ampio e variegato, composto da grandi scene corali. Verga, scrittore verista, si attiene a un naturalismo crudo, impietoso, che si avvale di uno sguardo lucido e acuto, e che ha il merito di porre l’accento sui fattori economici che muovono le azioni umane. In ossequio al principio verista secondo cui la narrazione deve essere improntata all’obiettività e all’impersonalità, Verga si occulta e lascia che siano le azioni dei personaggi a parlare da sé: il punto di vista della narrazione è quello del personaggio che di volta in volta è al centro della scena, e il registro si adegua a esso, oscillando tra una scrittura più scabra e una più lirica e romanticheggiante, tra una mimesi del parlato popolare densa di colorite espressioni idiomatiche e una fine letterarietà. D’altra parte, quando la narrazione si fa mordace e assume un tono acre, si manifesta la visione dell’autore, il suo pessimismo cupo e amaro, per cui gli esseri umani non sono che monadi dominate dall’egoismo, volte al perseguimento del proprio esclusivo tornaconto.